STORIA DI UN CAMION
C’era una volta un mondo immaginario.
C’era una volta il sogno del progresso.
C’era una volta la voglia di costruire, di scoprire, di conoscere.
C’era la voglia di credere nel futuro. C’era il futuro! Era lì, davanti a me.
Improvvisamente lo vedevo così chiaro, così presente. Incredibile, il
futuro era presente.
Non c’era alcun passato. C’era una volta in cui non c’era alcun
passato.
Ma c’era una strada. C’era una volta una strada.
Non una di quelle perfette, lisce, dritte.
Una strada vera: che curvava, saliva, s’infangava.
Una strada di quelle in cui puoi perderti, e trovarti.
Una strada con bivi, deviazioni, corsie strette e spazio per i sogni.
Su quella strada ho messo le ruote.
Io sono un camion, un carico, una promessa. E sono partito.
Sono nato con l’odore del ferro, e il primo sole sulla lamiera.
Ho fatto il mio primo viaggio nel ’65.
Non sapevo dove andavo, ma mi ci hanno portato.
Non ho mai avuto occhi. Ma ho visto l’Italia cambiare.
L’ho vista alzarsi all’alba per costruire, e rallentare per pensare.
L’ho vista crescere tra i cantieri e i capannoni, poi colorarsi di loghi,
insegne, strade più larghe.
Ho attraversato paesi diventati città, campi diventati zone industriali,
e silenzi riempiti da parole nuove: qualità, sostenibilità, connessione.
L’ho vista diventare veloce. Ma anche più fragile.
E ogni volta che sembrava smarrirsi, qualcuno ripartiva.
Un viaggio dopo l’altro. Come noi. Come me.
E così ho attraversato cantieri, campagne, nebbie.
Strade appena nate e strade consumate dal tempo.
Viadotti sospesi, curve che sapevo a memoria, lunghe notti d’asfalto
e tramonti rossi riflessi sul cofano.
Ho visto sorgere ponti dove c’erano solo fossi, e svanire fabbriche
dove prima battevano cuori d’acciaio.
Ho portato cemento per costruire, vetro per aprire orizzonti, granuli
che diventavano case, scuole, ospedali.
Ho trasportato sogni impastati di fatica, case ancora senza tetto,
strade ancora senza nome.
Ho caricato l’essenziale per costruire qualcosa di più grande.
Ogni viaggio, un pezzo di mondo da consegnare.
Ho portato futuro, anche quando non sapevo di farlo.
Ho avuto più mani sul mio volante che chilometri segnati sul
tachigrafo.
Mani ruvide, mani giovani, mani stanche. Ciascuna diversa.
Ciascuna con il proprio modo di frenare, di accelerare.
Mani che sapevano dove andare, e altre che imparavano a fidarsi
della strada.
E ogni volta che qualcuno mi guidava… io sentivo chi era.
Sentivo se aveva fretta o pazienza, se sapeva dove andare o se ci
andava solo per dovere.
Lo sentivo dal modo in cui accelerava nelle salite, da come stringeva
il volante nelle curve strette, dal respiro nei momenti di attesa.
Ogni volta che qualcuno mi guidava… io sentivo chi era.
Sentivo il rispetto, la cura, la rabbia a volte.
E quando trovavo chi mi trattava come qualcosa che conta,
io rispondevo.
Sempre.
Perché chi sale su di me non mi usa soltanto. Mi affida qualcosa.
Un carico, una direzione, un pezzo della sua storia.
E io, che sono fatto di ferro, strada e memoria, l’ho sempre portato
con me.
Perché un camion sente. Non parla, ma sente.
E se tu ci credi davvero, lui ti porta ovunque.
Ogni volta che qualcuno mi guidava… io sentivo chi era.
Come in quella notte.
Il freddo tagliava come vetro.
Le luci della città erano ormai lontane.
E la strada… era solo una striscia nera che spariva nel nulla.
Portavo cemento, e con me c’era lui.
Silenzioso. Concentrato.
Guidava come se conoscesse ogni curva, anche al buio.
Come se si fidasse di me più che dei suoi occhi.
Poi venne la neve. Prima lenta, poi furiosa.
Una salita impossibile. Nessuna anima viva intorno.
Solo me, lui… e il peso del carico che non voleva saperne di andare
avanti.
Rimanemmo fermi per ore.
Il motore acceso per tenerlo al caldo.
Io tremavo. Sì, io.
Non per la temperatura, ma per la paura di non farcela.
Perché, anche se sono fatto d’acciaio, io sento. Eccome se sento.
Sento quando il carico è troppo.
Sento quando chi guida ha paura ma va lo stesso.
Sento quando la strada è stretta, e anche quando si allarga,
finalmente.
Quella notte, lui scese dal mio abitacolo.
Aveva le mani gelate, ma mi accarezzò il cofano.
E disse solo una cosa: “Tranquillo. Ci arriviamo anche stavolta.”
Poi mise le catene. Salì. E con uno strappo deciso, ripartimmo.
A volte penso che non sia lui a guidarmi.
Ma che lo facciamo insieme.
Io tengo il carico. Lui tiene la rotta.
Io sono il corpo. Lui, il cuore.
Quella notte, non abbiamo consegnato solo cemento.
Abbiamo consegnato fiducia. Coraggio. Determinazione.
È per questo che, ogni volta che il motore si accende, io sono pronto.
Anche se è buio. Anche se nevica. Anche se non so dove sto
andando.
Perché tanto lo so: non andiamo mai per caso.
Andiamo dove serve. Come sempre.
Non sono solo un camion.
Sono memoria. Strada. Fiducia.
Sono la pelle di un’azienda che ha sempre saputo dove andare.
Non ho mai contato i chilometri. Ma ho contato i volti, le mani, le
parole.
E oggi, a sessant’anni dal mio primo viaggio… non so dire
esattamente dove siamo arrivati.
Ma so che siamo pronti a ripartire.
Perché la strada, quella vera, non finisce. Si rinnova. Si trasforma.
E se sai chi sei… non ti perdi.
Questo non è solo un viaggio.
È il viaggio che resta.